CRONACHE DAL PAESE IMPAZZITO

Nella serata del 22 agosto 2025, al Film Festival della Lessinia, la proiezione di “The Shepherd’s Keeper” ha lasciato il segno. Il documentario della regista israeliana Hadara Oren racconta le vicende di alcune comunità pastorali palestinesi nel cuore della Cisgiordania occupata, svelando un intimo microcosmo di un conflitto più ampio, in cui contadini arabi, coloni israeliani e giovani soldati si ritrovano invischiati in una battaglia di identità, territorio e coscienza. L’opera ritrae attivisti israeliani che si schierano a difesa dei pastori beduini palestinesi angariati dai coloni, illuminando con rigore documentaristico le dissonanze interne ad una società spaccata tra potenza, nazionalismo, bisogno di sicurezza da un lato e la volontà di preservare valori democratici ed umanitari dall’altro. Vedendo questo lavoro sono rimasto impressionato da situazioni oppositive tra coloni e attivisti vissute sul filo del rasoio della escalation fisica: segnali di una società sull’orlo della deflagrazione interna. Girato totalmente a mezzo smartphone, il film nasce più da un’urgenza morale che da un progetto produttivo: la necessità di dare voce agli ultimi: a coloro che vengono marginalizzati nella società e nel dibattito pubblico. Il pubblico in sala ha percepito questa urgenza, seguendo con attenzione e partecipazione una testimonianza scomoda e necessaria che ha dato vita ad un lungo e appassionato dibattito in sala al termine della proiezione. Ho appena passato un’ora insieme alla regista, e quanto segue è il frutto di una chiacchierata informale sul film e su il contesto israelo-palestinese.
Hadara Oren è stata per anni in prima fila nelle manifestazioni contro le politiche di Benjamin Netanyahu. Non conosceva però da vicino la realtà dei territori occupati, i media israeliani non ne parlano. Decisivo in tal senso è stato l’incontro con Guy Hirschfeld ed altri attivisti ad una manifestazione anti-governativa. L’incontro con Guy, che diventerà il protagonista del suo film, unito alla violenza della polizia israeliana nelle piazze l’hanno spinta ad andare oltre. “Volevo capire”, racconta. Da questa presa di coscienza è nato il film.
Un tema ricorrente nella nostra chiacchierata è stato quello del silenzio. “In Israele – dice Oren – i media tacciono su Gaza e sulla Cisgiordania. In Europa si sa più di Gaza che qui”. Le immagini circolano solo su canali stranieri come la CNN, che però molti scelgono deliberatamente di non guardare. È un meccanismo di rimozione collettiva, una forma di omertà che lei paragona a quella della Germania degli anni Trenta: la volontà di non sapere per non dover affrontare un dilemma morale insostenibile.
Eppure un’altra Israele esiste. Piccola, minoritaria, isolata, ma capace di resistere. È la rete di attivisti che difendono comunità vulnerabili e che spesso subiscono minacce e violenze. Hadara distingue tra chi simpatizza a distanza e chi agisce sul terreno: “siamo pochissimi – ammette dolorosamente – ma cerchiamo di testimoniare che un’alternativa è possibile”. La sensazione di solitudine che chi scrive ne ha tratto è forte, eppure è proprio in questa solitudine che si radica la forza del film.
Per Oren il cinema documentario ha un ruolo politico fondamentale. Non cambia direttamente le decisioni dei governi, ma può “risvegliare le coscienze”. In un Paese dove il discorso pubblico è sempre più militarizzato, il cinema resta uno spazio democratico di resistenza. “The Shepherd’s Keeper” vuole preservare l’anima democratica di Israele, mostrando ciò che i media nascondono e la società preferisce non vedere. “È un dovere civico – dice – raccontare quello che accade”.
Un altro punto cruciale della conversazione riguarda l’Europa. “Senza Europa non possiamo salvarci”, afferma Oren, convinta che solo pressioni esterne possano frenare la deriva israeliana. Apprezza gesti politici come il riconoscimento della Palestina da parte di Francia e Spagna o la decisione della Germania di interrompere la fornitura di armi. “Criticare Israele oggi è un atto necessario per difendere i valori democratici”, sostiene. Per lei il silenzio europeo sarebbe corresponsabilità.
Il film mostra anche, come detto in apertura, le tensioni tra coloni e attivisti, spesso sul punto di esplodere. Oren parla di “un conflitto ideologico e civico che attraversa l’intera società. Gli estremisti, però, hanno le armi e l’appoggio della destra. Israele appare orientalizzato e militarizzato”, sempre più lontano dai modelli occidentali di equilibrio politico. Un Paese insomma che si percepisce sull’orlo di un collasso interno.
A un certo punto la testimonianza della regista si fa sguardo intimo. Hadara Oren ama la cultura, i paesaggi, le persone di Israele, ma non lo Stato. “Non posso dire che amo il mio Paese, oggi me ne vergogno”, confessa. Quando viaggia all’estero non sa come presentarsi: “non avevo il coraggio di dire che venivo da Israele, dicevo di provenire dal Paese impazzito”. Una definizione che racchiude lo spirito del film. “Se il futuro resta nelle nostre mani, ci suicideremo”, aggiunge, convinta che solo un intervento esterno possa fermare la deriva israeliana. Sul piano artistico, però, non si ferma: nuove idee e progetti la attendono, perché “non c’è altra scelta che continuare a raccontare”.
“The Shepherd Keepers” non è solo un documentario sulla grama vita dei pastori palestinesi nei Territori: è un ritratto della crisi morale di Israele, e insieme la prova che esiste un’altra voce, fragile ma ostinata, che resiste. La formula usata da Hadara – Paese impazzito – diventa chiave di lettura: un Paese che si divide, o rimuove, ma in cui qualcuno ancora trova la forza di raccontare. Al pubblico europeo resta il compito di ascoltare, riconoscere e non voltarsi dall’altra parte.
Giovanni Teodori