24/08/2016

STORIE DI POLVERE

STORIE DI POLVERE

Elena Dak dichiara il suo amore per la polvere. Quella che alzano uomini animali lungo le tracce della transumanza dei pastori Bororo, nelle piste del Ciad. «Se si è nomadi dentro, non si può fare altro che andare.» Non poteva, Elena, placare il suo desiderio di viaggiare se non col partire. Da sola, con la sua tenda, diventando lei stessa nomade transumante. E il suo racconto si illumina, come il suo volto, e brillano i suoi bracciali e orecchini di metallo istoriati. Sullo schermo vanno le immagini dei danzatori dai volti dipinti, e si alza la polvere al percuotere a ritmo l’arido terreno africcano. Altra polvere, sulle montagne cinesi, è quella che alzano le greggi di Tharlo, con lo splendido bianco e nero del film di Pema Tseden. Ma alla polvere delle montagne dove il pastore potrebbe restare in pace con se stesso, si contrappone l’untuosa patina di ipocrisia della città. Turlupinato da illusori sorrisi femminili, con il tagliarsi dell’amata treccia il pastore perde irrimediabilmente la sua ingenuità. Il mondo si è approfittato di lui, e nemmeno la grandiosità del tramonto del suo altopiano polveroso lo potrà riconciliare con la sua vita solitaria. Ancora polvere, la sera, quella della miniera «mangiatrice di uomini» a Potosì, in Bolivia. Il regista Benjamin Colaux la affrontata entrandoci con le sue videocamere. Se l’è portata addosso per mesi, calandosi con i minatori nei pozzi dove le luci dei caschetti illuminano fantasmi sulle pareti umide. Si esce dal cinema e la polvere sembra avvolgere gli spettatori del Film Festival della Lessinia, lasciare i segni delle storie che hanno visto, delle terre che hanno camminato.

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